Pubblichiamo qui la lettera di Silvana Mossano
Herr Stephan Schmidheiny, guten Tag.Signor Stephan Schmidheiny, buongiorno.
Faccio ricorso a quel poco di reminiscenza scolastica rivolgendomi a Lei nella Sua lingua madre perché le parole sono, o possono essere, il primo approccio distensivo, la prima espressione di volontà a incontrarsi. Io credo nella loro efficacia come formidabile strumento dialogico.
Ed è per proporLe un dialogo che Le scrivo questa lettera aperta, Herr Schmidheiny. Anzi, per offrirLe l’opportunità di un dialogo.
Non riesco a spingere molto più in là i miei ricordi di studio del tedesco, ma il senso di questo pur sintetico esordio linguistico si materializza nella mia mano tesa. Umida di pianto, ma vuota di rancore. Non ho mai consentito che germogliasse neppure dalle radici profonde del dolore.
Sono una casalese. Sono una vedova dell’amianto. Sono una giornalista. Sono un catino pieno di lacrime per le tante, tantissime persone che sono state segnate e che sono tutt’ora afflitte da quel male mostruoso che la scienza ha appurato essere generato dalla fibra di amianto. Qualcuno, questo male da cui fu agguantato – e che affrontò con angoscia, rassegnazione e tuttavia con grande dignità – lo definì una sorta di «stella di David della casalesità».
Quanto si è detto, quanto si è scritto, quanto si è dibattuto in questi decenni!
In convegni e processi, sono maturate nuove conoscenze, si sono modificati, affinati, evoluti, rivisti ragionamenti giurisprudenziali e scientifici, questioni di diritto e di principio.
Si sono migliorate e perfezionate le pratiche preventive e le tecniche di bonifica.
Sono avanzati i passi della ricerca medica per debellare quel male spaventoso – «democratico» quanto ingiusto, subdolo e perfido – che, in alcuni dei miei molteplici articoli e riflessioni, ho definito figliastro malvagio dell’amianto. Il mesotelioma, appunto.
Sono passati quindici anni da quando è iniziato quello che è stato definito il Maxiprocesso Eternit 1, per disastro doloso, che l’ha vista imputato, Herr Schmidheiny, e che era stato segnato da una severa sentenza di condanna, confermata in Appello e infine spazzata via dalla prescrizione. E poi ne è cominciato un altro per gli omicidi di centinaia di persone, questo battezzato Eternit Bis, che si è concluso, in primo grado, a giugno dello scorso anno 2023, con la Sua condanna. Ora ci sarà l’appello, poi un’altra Cassazione.
Intanto, però, altre vittime si sono aggiunte a quel lungo elenco del capo di imputazione. E, quindi, potrebbe esserci un Eternit ter, e quater. Nel frattempo, altri si ammalano, e soffrono, e muoiono, E tutti, ma proprio tutti noi, sa?, viviamo con la paura di una tossetta insidiosa o di un banale quanto nefasto mal di schiena o di una subdola spossatezza.
E, alla fine, chi vince? Sento l’orrore di questa domanda. Perché l’unica risposta – per me, per la mia gente, per la gente di tutto il mondo che si ammala di mesotelioma, ma anche per Lei, sì, anche per Lei – è questa: si vincerà soltanto quando si guarirà.
Questa patologia, diciamocelo senza edulcorazioni, è una carogna. E’ schifosa. E’ perversa. E’ infida. E’ difficile. E’ cattiva. Sì, cat-ti-va. Ci tiene tutti sulla corda, può insidiare chiunque. Anche Lei, come ben sa. Ricordo di aver letto che la Sua esperienza giovanile in uno stabilimento amiantifero del Brasile non le fa fare sonni del tutto tranquilli, non si può sentire al sicuro. La fibra generatrice del male è silente e paziente: sta lì dentro di noi, si rilassa, dorme e cova, anche cinquant’anni e più, finché un giorno, gagliarda e malefica, si mette a ballare. E a quel punto è fatta. Non smette più di danzare, ebbra di perfidia, fino alla fine.
Dobbiamo fermarla, Herr Schmidheiny. Dobbiamo rendere innocuo il suo scellerato figliastro.
Bisogna trovare il modo. E, fino a ora, non lo abbiamo trovato. Anche se in molti – scienziati, ricercatori, medici – ci hanno provato e continuano instancabilmente a provarci, per tentativi, per intuizioni. Ognuno fa una piccola, preziosa e coscienziosa parte sperando che, un giorno, i pezzetti si incastrino.
Ma i giorni passano e altri si ammalano, soffrono, muoiono. Sa che cosa significa, Herr Schmidheiny? Che, mentre sono impegnati in un meraviglioso progetto di vita, di lavoro, di amore per la loro famiglia e i loro amici, di viaggi, di scoperte, di albe e tramonti mozzafiato, di chiostre innevate e di mareggiate stupefacenti vengono randellati di brutto. Un colpo secco.
E’ un colpo secco la diagnosi, sa, Herr Schmidheiny? Trafigge come un fulmine e un tuono. Stordisce a tal punto che tutto quel progetto fa una repentina capovolta ed è costretto, in un nanosecondo, a riposizionarsi, a ricollocare il respiro corto e a concentrarsi in uno spazio vitale più ridotto, più piccolo, a volte brevissimo. Quanto misura lo spazio ridotto, piccolo, brevissimo se, nell’orizzonte già ammaccato, intravedi, inequivocabile, il tuo punto di arrivo? Appallottoli vecchi documenti che fino a un attimo prima erano importanti e, di colpo, non servono più. Sistemi le cose, si dice così… destini la tua attività e i beni che hai accumulato con fatica e orgoglio, dettagli il testamento. Cominci a salutare le persone che ami, gli amici, i luoghi… le cose un po’ meno perché si svuotano di senso, fai qualche raccomandazione, ti aggrappi ai ricordi belli che, per fortuna, sono robusti e ti consolano. Un poco, forse.
E noi, adesso, Herr Schmidheiny, che cosa facciamo? Continuiamo a rincorrerci da un processo all’altro?
Io ammiro e sono molto grata agli uomini e alle donne di legge che hanno cercato e cercano, attraverso lo strumento nobile della Giustizia, di approfondire, capire e portare alla luce come questo dramma sia potuto accadere, con uno strascico di cui non riusciamo a intravedere la fine. Li ammiro, sì, perché ci hanno costretto – a partire dalla fiera e coraggiosa comunità cui appartengo – a ribellarci al male senza rassegnarci.
Documenti, testimonianze, ricostruzioni, storie e destini hanno messo alla prova la nostra dignità, la nostra resilienza: quella che, come ricorda il filosofo Umberto Galimberti, una volta si chiamava forza d’animo e alloggia metaforicamente nel cuore, eccellente forziere dei nostri sentimenti. Li ammiro, gli uomini e le donne di legge, perché, in un confronto serrato su trincee opposte, talora doloroso e difficilissimo, chiamando a sostegno anche i portavoce della Scienza più autorevole e onesta, hanno estratto dall’oblio questa tragedia che, altrimenti, sarebbe stata anche aggravata e umiliata da un analfabeta abbandono.
Ma adesso la domanda è: fino a quando si snoderà lo strascico di questo dramma?
Guardiamo le cose realisticamente. Lei, in questo momento, ha una condanna che le pende in capo. Siamo qui in attesa del processo d’appello, ma potrebbero esserci altri processi. E quindi? Oh, Lei sarà ben difeso dai Suoi avvocati e consulenti (li ho conosciuti e li ho ascoltati: sono valenti e preparati), ma il Suo nome – e Lei lo sa – comunque sia resterà legato a queste morti ingiuste.
Il Suo nome resterà legato in modo disonorevole alle parole amianto, mesotelioma.
Se la sente di portare questo peso fino alla fine dei Suoi giorni? Anzi, di più: se la sente di trasmettere questo fardello ai Suoi eredi?
Eppure un’alternativa c’è. Si chiama giustizia riparativa.
Questo è il mio personale appello. Mi ascolti, per favore.
E’ sempre esistita, in verità, la possibilità di uscire dalla propria roccaforte difensiva e proporre – con umiltà, intelligenza e coraggio – una soluzione riparatrice. Non era necessario sancirla per legge. Ma, ora, in più, questa possibilità viene formalmente introdotta come disciplina organica: prevede che le parti – in questo caso, i Suoi interlocutori sono coloro che rappresentano la collettività di vittime – si incontrino e, con l’aiuto di un mediatore, provino a perseguire una pacificazione sostanziale e terapeutica.
La giustizia riparativa è una sfida che parte da una domanda semplice e chiara: che cosa si può fare per riparare il danno prodotto?
Ora, Lei, signor Schmidheiny, potrà continuare legittimamente, nelle aule di tribunale, a difendersi (o dando mandato a difenderLa) negando di aver voluto uccidere così tante persone. E nei tribunali – perché quella è la sede dove potrà difendersi -, ognuna delle parti insisterà sui propri convincimenti e i giudici alla fine decideranno. Una volta, due volte, tre volte…
Quante volte? Cento? Mille?
Ma anche riuscendo a scavalcare sentenze, condanne, assoluzioni e salvifiche prescrizioni, non riuscirà a negare una realtà inoppugnabile: l’amianto causa il mesotelioma; Lei signor Schmidheiny, e la Sua stirpe, ha lavorato l’amianto nelle Sue aziende, in Italia e altrove. Quindi quell’amianto ha causato vittime, ha ucciso. Non è un giudizio: è un fatto storico.
Non vuole invertire questa rotta? Esca dal fortino in cui ha provato a mettersi al riparo e accetti la sfida che va oltre la dazione di una manciata di milioni di euro. La sfida è progettare azioni positive e condivise, etiche e realisticamente concrete per guarire, per salvare. Che cosa c’è di più concreto che trovare una cura? «La» cura?
Lo abbiamo visto tutti, nel caso del covid, che, investendo e concentrando nella ricerca più risorse, il risultato è arrivato con tempestività. E si sono salvate delle vite, capisce signor Schmidheiny? Migliaia di vite, di ogni età: la Sua, la mia, quella dei nostri figli e dei nostri nipoti.
Perché non provare anche con questa piaga che è il mesotelioma? Non si muore di mesotelioma soltanto a Casale Monferrato, ma in tutto il mondo. Lei, certo, non è responsabile di tutte le morti da amianto del mondo, ma può essere responsabile della loro sopravvivenza e della loro guarigione.
Lei obietterà: “Ma io che cosa ci guadagno ad accettare questa sfida se, comunque, i processi contro di me proseguono?”.
Ci guadagna sé stesso, signor Schmidheiny, Le sembra poca cosa? Ci guadagna la sua coscienza, il Suo nome e quello dei Suoi discendenti, la Sua immagine rigenerata a cui Lei tiene, ci guadagna la Sua dignità.
Sono convinta che, nell’età della maturità, quando le forze fisiche tendono a rarefarsi, aumenta esponenzialmente la capacità di sondare la propria coscienza in modo più ampio e più profondo, si acquisisce una visione nuova delle priorità.
Un impegno d’onore, Herr Schmidheiny: assuma un impegno d’onore con sé stesso e con una collettività ferita che vuole guarire.
E’ questo il momento: assuma in prima persona la gestione imprenditoriale (attraverso una casa farmaceutica) ed etica di incentivare la ricerca fino a raggiungere l’obbiettivo condiviso: trovare la «medicina» giusta. Guidi Lei, da imprenditore, questa attività.
Prendo a prestito la citazione di un “gigante” della Storia: «La ricompensa per la pace è la pace stessa» diceva il Mahatma Gandhi. Mi permetto di estenderla: la ricompensa per la pacificazione è la pacificazione stessa.
Serve il coraggio per raccogliere la sfida. Adesso, non oltre. Faccia da apripista, e altri, in tutto il mondo e in altri settori, la seguiranno. Un giorno potrebbe essere ricordato per questo.
Le rinnovo il mio appello nella «Giornata delle vittime dell’amianto» perché così la voce Le arriva più forte.
La mia voce insieme ad altre voci gireranno in ogni angolo della Terra.
Ma, dovessi anche restare sola, continuerò a insistere, non ingenua, ma tenace e fiduciosa, senza lasciare nulla di intentato.
Ci pensi ora, lo faccia adesso.
Auf wiedersehen, Herr Schmidheiny. Arrivederci.
Silvana Mossano