Almeno fino agli anni ’60 del secolo scorso, con il nome “Eternit” non ci si riferiva, come accade oggi, a uno dei più gravi disastri ambientali della storia italiana; quella parola, al contrario, era considerata sinonimo di benessere e progresso.
L’Eternit era stata fondata nel 1906 e si occupava della produzione e del commercio dell’omonima lega in cemento amianto, brevettata pochi anni prima dall’austriaco Ludwig Hatschek; il nome, dal latino aeternitas, esprimeva le eccezionali doti di resistenza e durata di quell’impasto. Nello stesso anno iniziarono le attività dello stabilimento di Casale Monferrato (già sede di importanti industrie del cemento), destinato a diventare il più grande sito produttivo di manufatti in cemento-amianto d’Europa. I numeri sono indicativi di un colosso industriale con pochi eguali: 94000 metri quadrati di estensione, di cui 50000 coperti; circa 5000 persone impiegate in ottant’anni di attività; un numero di dipendenti che ondeggiava tra i 1000 e i 2000 (nel 1965).
Nonostante il posto di lavoro all’Eternit fosse particolarmente ambito, con il passare del tempo iniziarono tuttavia ad emergere le tragiche conseguenze provocate dalla lavorazione dell’amianto: un significativo aumento dei casi di mesotelioma, gravissima patologia tumorale che – come allora già noto agli addetti ai lavori e, soprattutto, ai vertici della società – ha come pressoché unica causa l’esposizione all’asbesto.
Ad ammalarsi non erano però solo i dipendenti della Eternit, ma anche i singoli cittadini, che entravano a contatto con le fibre a causa dell’inquinamento ambientale provocato dalla lavorazione (frantumazione del materiale a cielo aperto, trasporto con mezzi scoperti, addirittura distribuzione alla popolazione del prodotto di scarto della lavorazione, il cosiddetto “polverino”).
Tra la fine di quel decennio e gli anni ’80 iniziò quindi una dura battaglia a difesa della salute dei lavoratori e della collettività, che vedeva da un lato i sindacati locali (in particolare la CGIL, sotto l’impulso dell’allora segretario della Camera del Lavoro, Bruno Pesce, e di Nicola Pondrano, operaio dell’Eternit, dal 1980 distaccato alla CGIL come direttore del patronato INCA) e, dall’altra parte, la dirigenza dell’Eternit, che nel frattempo era stata acquisita dalla famiglia svizzera Schmidheiny.
Degna di nota è, in particolare, l’importante causa civile iniziata nel 1981 contro la società e l’INAIL, che portò all’accertamento delle gravi condizioni di rischio all’interno dello stabilimento. I risultati di quelle indagini furono resi noti alla collettività tramite un importante convegno patrocinato dall’INCA nel 1984.
Fiaccata dall’attività di contrasto dei sindacati e dalla progressiva scoperta in tutto il mondo dell’estrema nocività dell’amianto, l’Eternit presentò nel 1986 istanza di fallimento, accolta il 4 giugno dal Tribunale di Genova.
Neppure un anno dopo, la holding francese del gruppo Eternit propose la riapertura dello stabilimento, per proseguire la produzione di manufatti in amianto. La mutata sensibilità collettiva, influenzata anche dalla lettera pubblica firmata da 110 medici del territorio, contrari a una nuova lavorazione dell’asbesto sul territorio, portò l’allora sindaco di Casale Monferrato, Riccardo Coppo, a emanare il 3 dicembre 1987 un’ordinanza che vietava l’utilizzo di amianto nel territorio di Casale Monferrato e quindi, di fatto, sbarrava la strada a qualsiasi ipotesi di riapertura.
Con quell’atto, la città di Casale voltava definitivamente pagina e apriva un nuovo capitolo della sua storia: da capitale europea della produzione di amianto a punto di riferimento mondiale per la rimozione dell’amianto e di tutte le sue conseguenze nocive dal territorio.
Per approfondire:
- Giampiero Rossi, La lana della salamandra, Ediesse, Roma, 2008
- Giampiero Rossi, Amianto – Processo alle fabbriche della morte, Melampo, 2012
- Gea Ferraris, Assunta Prato, Eternit – Dissolvenza in bianco. Ediesse, Roma, 2011
- Silvana Mossano, Malapolvere, Sonda, Casale Monferrato, 2010