Pubblichiamo il testo di Nicola Pondrano su “Amianto e Statuto dei lavoratori”
Negli anni ’50 e ’60 entrando in fabbrica l’operaio era completamente assoggettato al “padrone”, con modalità di lavoro e norme di comportamento molto vincolanti, che, insieme alle tensioni sociali dell’epoca, portarono alle lotte operaie della fine degli anni ’60 e alle grandi battaglie sindacali.
Un primo importante risultato ottenuto sul versante delle tutele fu il Testo Unico su infortuni sul lavoro e malattie professionali: la legge 1124 del 1965, Dal ’65 ci fu un periodo di lotte molto intense, che portarono a promuovere lavori parlamentari che recepissero il malcontento del mondo del lavoro. Si arrivò così allo Statuto dei Lavoratori, pensato dal ministro socialista Giacomo Brodolini e redatto da Gino Giugni, considerato il “padre” dello Statuto.
Il testo mise fine allo strapotere aziendale e sancì principi generali per la libertà e la dignità di lavoratori e lavoratrici, validi ancora oggi. Come quelli contenuti nell’articolo 5 sugli accertamenti sanitari e nell’articolo 9: una norma fondamentale, che prevede per i lavoratori, mediante le loro rappresentanze, il “diritto di controllare l’applicazione delle norme per la prevenzione degli infortuni e delle malattie professionali e di promuovere la ricerca, l’elaborazione e l’attuazione di tutte le misure idonee a tutelare la loro salute e la loro integrità fisica”.
L’articolo 9 diede il via a una stagione che ho vissuto in prima persona, a Vercelli nelle lotte operaie nel settore chimico, e poi a Casale Monferrato (Alessandria), allo stabilimento Eternit, dove si lavorava l’amianto, in cui fui assunto l’11 novembre 1974, a 24 anni, e in cui allora lavoravano circa 1.050 persone.
L’impatto in azienda fu per me sconvolgente. Sin da subito percepii una situazione grave, vedendo i tanti manifesti affissi all’ingresso della fabbrica, con l’elenco dei lavoratori morti: Mario 54 anni, Antonio 56 anni, Agostino 59 anni, ecc. Tutti morivano prima di andare in pensione.
Ero uno stabilimento vecchio – come ho raccontato come principale teste d’accusa nel primo processo Eternit – e c’era un polverosità incredibile, nonostante l’umidità legata alle lavorazioni. Era un girone dantesco.
Si sapeva che l’amianto provocava l’asbestosi, si parlava spesso del “tumor dii polmun” (tumore dei polmoni, in piemontese), ma nel 1978 ci fu un caso che sconvolse l’intera comunità: Giannina, la moglie di Franco Vitale, la magazziniera dell’Eternit, da tutti amata e rispettata, morì all’ospedale pneumologico La Bertagnetta di Vercelli. Morì a 49 anni, di mesotelioma pleurico, il tumore provocato dall’amianto.
Fu un pugno nello stomaco, ma ci fece prendere cognizione del problema.
Iniziarono così processi di consapevolezza e di analisi, grazie al lavoro della Commissione Ambiente insediatasi all’interno della fabbrica, in cui fui nominato insieme a padre Bernardino Zanella, prete operaio alla Eternit, figura fondamentale nel favorire una presa di coscienza collettiva del problema amianto.
Fummo una spina nel fianco per l’azienda, perché, oltre alle questioni salariali, rivendicammo la tutela della salute dei lavoratori e delle lavoratrici. Fu un salto di qualità che portò a una politica di informazione a tutti i lavoratori, grazie alle libertà sindacali previste dallo Statuto dei Lavoratori.
Sulle bacheche abbandonate in azienda, piene di polvere, dimenticate, cominciai ad affiggere comunicati con le richieste che presentavamo ogni settimana all’azienda. Qualcuno cominciava a leggerli, si interessava…
Nel 1976 e 1977 ci furono decine di scioperi per la salute, per chiedere migliorie tecnologiche in grado di ridurre le polveri nello stabilimento. L’Eternit, però, una grande multinazionale, non stette con le mani in mano e si inventò il Servizio Igiene Lavoro (Sil) per cercare di contestare le affermazioni dei sindacati, sicuramente intrise di ideologia, ma suffragate dal pessimo stato in cui si trovava la fabbrica e dalle sofferenze dei lavoratori, che lamentavano gravissime compromissioni delle capacità polmonari e cardiache. Vidi morire decine di compagni di lavoro, prima della pensione o poco dopo…
Occupammo anche gli uffici amministrativi, collezionammo un gran numero di lettere di ammonizione e il delegato Mauro Patrucco perse anche il posto per aver denunciato le condizioni di insalubrità dell’azienda.
Con padre Bernardino Zanella, lavorai per costruire consapevolezza tra i lavoratori e le lavoratrici. L’abbraccio mortale dell’azienda era però molto forte: cercava di farsi percepire come una famiglia e “compensava” il lavoro rischioso offrendo paghe e indennità più alte rispetto alle altre aziende (fino al 30% in più) a chi era abituato a lavorare nei campi o sottoterra nelle miniere e nelle vicine cave di marna. C’erano poi tantissimi “benefit”: la colonia marina a Spotorno, le borse di studio, i premi ad personam, il dopolavoro con il campo da bocce e la sala da ballo, le latte di olio d’oliva da sei litri in omaggio due volte all’anno, i regali per Natale e la Befana, ecc. C’erano lacci e lacciuoli difficili da spezzare.
Divenni poi il portavoce, il “presidente” del Consiglio di Fabbrica, e la gente iniziò ad ascoltarmi per la rabbia, per la passione che mettevo nei miei discorsi.
La gente però non osava parlare nelle grandi assemblee di fabbrica dei tubi che si rompevano, dei sistemi di captazione delle polveri guasti e iniziammo allora a organizzare assemblee per singoli reparti, per gruppi omogenei, come si faceva anche alla Fiat Mirafiori. E la gente iniziò a parlare… E io cominciai a scrivere, scrivere…
Dopo un anno, con padre Bernardino Zanella traducemmo tutto in una mappa grezza delle condizioni di nocività in fabbrica e in una prima piattaforma rivendicativa, che presentammo tra il 1977 e il 1978, dando il via alle battaglie legali, poi sfociate nel processo Eternit.
Nel 1979 iniziai a occuparmi del sindacato a tempo pieno, lavorando con Bruno Pesce, e arrivando poi a dirigere nel 1980 il patronato regionale della Cgil (Inca).
Grazie all’articolo 12 dello Statuto, che permise la presenza del patronato in fabbrica, fu possibile una tutela collettiva, dimostrando che non c’era una propaganda dei “rossi”, ma che si moriva in fabbrica.
Il patronato fu uno strumento straordinario che, avvalendosi di medici del lavoro e avvocati, dimostrò il nesso di causalità tra le lavorazioni in fabbrica e le morti dei lavoratori. Ci furono lotte e ripetute manifestazioni, come quella del 1981 in cui bloccammo i cancelli dell’Inail a Roma.
Costruimmo un team con Bruno Pesce, anche lui sindacalista della Cgil, l’oncologa Daniela Degiovanni e l’avvocato Oberdan Forlenza, per cominciare a fare centinaia di denunce per malattie professionali, anche per gli impiegati amministrativi. Dalla tutela individuale si passò alla tutela collettiva, con i primi processi contro l’azienda e contro l’Inail.
Quando l’Unità dedicò la prima pagina del quotidiano alla vicenda, titolando “La fabbrica della morte”, anche l’Eternit capì che non poteva più governare la situazione, non poteva più inquinare l’informazione e continuare a operare impunemente. Grazie alle battaglie del sindacato, il 6 giugno 1986, dopo due anni di amministrazione controllata, l’Eternit di Casale Monferrato chiuse definitivamente, con un’istanza di auto-fallimento.
La multinazionale scappò, ma intanto la gente continuava a morire e muore ancora oggi, anche fuori dalla fabbrica. Iniziò quindi la stagione processuale, che portò al primo processo Eternit (terminato con la prescrizione in Cassazione nel 2014) e ora all’Eternit bis, la cui prima udienza si dovrebbe tenere, emergenza Covid permettendo, il 27 novembre 2020 in Corte d’Assise a Novara. La città di Casale, intanto, grazie al sindacato e all’operato di molte associazioni come AFeVA e Legambiente, è diventata la capitale mondiale della lotta all’amianto, per ottenere giustizia, ricerca di cure mediche e bonifiche. Tutto però è partito dalle lotte operaie e dalle prime libertà sindacali concesse dallo Statuto dei Lavoratori.